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Da Pianello a Fonte Avellana – l’esperienza di Vasco Feligini, guida AIGAE, in cammino dal 14 al 15 settembre 2016

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Ore 6.30 suona la sveglia, è il giorno della partenza per un esperienza fatta altre volte ma questa sarà diversa, perchè diverso è il mio modo di affrontare le cose.

Il respiro del mattino è un respiro lento quasi impercettibile, faccio colazione controllo la lista del materiale chiudo la porta ed esco e mi metto in cammino.

Il primo tratto di strada è asfaltato ed in pianura, il respiro è regolare e cadenzato dai bastoncini da trekking e dal loro suono che toccano l’asfalto.

Lascio l’asfalto e salgo verso Ranco, qui inizia la salita, ora il suono del respiro si inizia a sentire di più del suono dei bastoncini, ma è mattina sono riposato, motivato e quindi il respiro ha un ritmo ed una profondità che rende tutto più semplice.

Il percorso attraversa Caimarini e Val d’ la pietra, è una strada bianca in falso piano in salita ma in parte in ombra, e quindi il respiro è regolare e bastano pochi passi per entrare in sintonia con il resto del corpo e degli alberi che costeggiano la strada.

Arrivato a Pian dei Santi lascio la strada per la mulattiera verso Ca’ Tecchie, qui la vegetazione è più fitta e quindi l’aria è più umida ed il mio respiro diventa più pesante più “rumoroso” nonostante la mulattiera in discesa, ma il calpestio delle foglie secche e lo sguardo che spazia tra i rami ed il cielo rende l’aria più leggera e quindi anche qui bastano pochi passi per far scomparire il suono del respiro che torna in sintonia con il bosco che stavolta mi circonda completamente.

Il resto del percorso della mattina è tutto nel bosco di tecchie, un bosco magico dove ogni albero ogni curva ogni sasso rivela un mondo diverso, qui la vista l’olfatto e la pelle prendono il sopravvento e quasi non sono più consapevole di camminare già da qualche ora.

L’uscita dal bosco di Tecchie e l’arrivo a San crescentino è caratterizzato dalla ricerca di evitare le strade cercando di ripercorrere quelle che erano le antiche vie pedonali percorse anche con i muli o i cavalli … ma niente da fare, filo spinato recinzioni e vegetazione incontrollata rendono la scelta impraticabile, qui il respiro era impulsivo e non regolare caratterizzato anche da qualche piccola imprecazione contro lo stato di abbandono e contro l’incuria delle persone che ora probabilmente neanche esistono più.

Arrivato a San Crescentino il torrente Balbano con il suo scorrere calmo e tranquillo il panino con la frittata e le zucchine fanno tornare anche il mio respiro regolare ed in sintonia con il paesaggio, ecco la discesa dal bosco di tecchie a San crescentino era principalmente caratterizzata dal paesaggio, come anche la salita da Pianello a Pian dei Santi, solo che in questo versante il paesaggio era completamente diverso, quello di Pianello verso la serra era più verde e lasciava vedere meno le opere dell’uomo, questo della valle del Balbano meno boscoso con le case ed i piccoli borghi più visibili più presenti ed anche costruiti diversamente, mentre sul lato Pianellese le pietre delle case erano in vista, qui le pietre sono spesso ricoperte dall’intonaco e rendono le costruzioni più marcate rispetto ai campi ed ai boschi intorno.

Ripreso il cammino mi aspetta il superamento della flaminia qui purtroppo l’unico suono presente e sovrastante a tutto era il suono dei pneumatici sul viadotto.

Arrivato a Pontedazzo una piccola sosta di rifornimento di acqua e su per la via molto ripida verso i campi del monte Tenetra.

Sarà stata l’ora, le tre del pomeriggio, saranno state le ore di cammino già sulle gambe, ma la salita ed il superamento di quel tratto è stata la parte più impegnativa di tutto il percorso.

Dapprima pineta, poi fitta macchia incolta e malcurata il sentiero saliva ripido, i prugnoli ed i rovi hanno messo a dura prova la mia pazienza, in questi casi concentrarsi sulla respirazione o sulla osservazione dell’ambiente intorno è veramente difficile, questo ha comportato numerose soste, io non so se il motivo era questo o l’aria umida e ferma della valle del Burano, ma era veramente difficile trovare la giusta proporzione tra la quantità da inspirare e quella da espirare.

Arrivato finalmente fuori da questa macchia ostile all’essere umano, lo sguardo ed il paesaggio si sono aperti sulla valle del Burano verso Cagli e verso il monte Petrano, volevo proseguire ma lo spettacolo meritava una più attenta osservazione ed iniziava a farsi tardi, ho quindi deciso di accamparmi a metà strada tra Pontedazzo e la cima del Monte Tenetra.

Questa mia decisione è stata premiata dal vento che ha spazzato via quella pesantezza umida che mi stava oramai accompagnando da almeno 4 ore.

Lì in quella costa così isolata ripida e panoramica il mio respiro era parte integrante del fruscio delle foglie spazzate dal vento, mi trovavo a respirare con la stessa cadenza del movimento dei rami degli alberi, a volte con lunghi e profondi respiri a volte con respiri quasi accennati a volte con grandi prese d’aria quando arrivava il colpo di vento più forte.

Si fa notte e probabilmente ho dormito respirando coordinato dal vento che mi ha fatto compagnia per tutta la notte.

La mattina si riprende, e subito la salita è ripida ma lo sguardo che arriva lontano e la possibilità di mantenere un passo regolare rende il mio respiro leggero come il vento della mattina che accarezzava quella costa.

La simbiosi che si crea tra un uomo e l’ambiente che lo circonda, la trovo ancora quando incontro un branco di mucche che si erano sdraiate a brucare l’erba.

Ora il mio sguardo non ha più i confini delle piante, ed il mio respiro entra in sintonia con il veloce scorrere delle nuvole che salgono dalla valle per attraversare le cime del monte Acuto e del monte Catria, qui i sentieri sono sempre ben visibili e senza ostacoli, il respiro torna ad essere regolare e cadenzato dal passo e dai bastoncini.

All’altezza della casetta dei Mochi torno a percorrere il sentiero sotto uno stupendo bosco, sono sotto il monte Acuto, nonostante il fondo del sentiero si leggermente fangoso si riesce comunque a tenere un passo costante e ci si può anche distrarre lasciando che lo sguardo si perda tra i fusti di questi stupenda faggeta, qui l’impressione è quella di non respirare sembra quasi che non sia necessario, il fruscio del vento, il suono ovattato dei passi sul fondo a volte pietroso ma mai acuto e sempre profondo come se entrasse nel terreno, sovrastano ogni altro suono o sensazione.

arrivo alla fine di questo tratto del bosco e mi fermo per il pranzo, in compagnia di una mucca zoppa ed un falco che ha sorvolato più volte ed a pochi metri dalla mia testa la radura dove mi ero fermato.

Riprendo il cammino con la decisione di accorciare e di arrivare prima del previsto alla tappa finale l’eremo di Fonte Avellana, il tempo stava cambiando repentinamente e non prometteva niente di buono.

Quindi un giusto tributo sulla cresta del monte Acuto per inspirare a pieni polmoni e lasciarmi trasportare dal vento fino a valle lungo un ripido sentiero che in poche ore mi ha fatto tornare a respirare insieme agli altri uomini.

 

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Intervista a Vasco Feligini, autore di „G I M E” appassionato alla natura, gli uomini e i paesaggi, corsista ai tre corsi a Fonte Avellana 2016

Nato da una coppia di marchigiani emigrati a Roma ma che non hanno mai abbandonato le loro radici. Sono cresciuto quindi tra Roma le Marche e le Dolomiti, sì, perché ai miei genitori piaceva viaggiare, al paese mio padre lo avevano soprannominato “carica scarica”, perché caricava e scaricava continuamente la macchina dai bagagli.

Viste le poche risorse a disposizione per viaggiare, anche in tempi in cui non erano diffuse, noi viaggiavamo in tenda, negli anni settanta spesso i campeggi erano poco più che campi messi a disposizione da privati, oppure si piantava la tenda dove capitava, cercando di nasconderla alla vista.

Nei loro viaggi, i miei genitori, non trascuravano mai le tradizioni e la cultura locale, e quindi si mangiava e si beveva quello che si produceva nella zona che si visitava, e questa sana abitudine mi è entrata nella pelle.

Crescendo dall’età di 15 anni ho iniziato a frequentare gli scout, così allo spirito errante ereditato dai miei si è aggiunto il concetto di essenzialità e di avventura del metodo scout. Con il passaggio da educando ad educatore ho scoperto che il metodo scout e l’ambiente naturale avevano una capacità di creare ragazzi in grado di apprezzare la semplicità e la durezza della natura. 

Nel tempo ho provato a miscelare le mie esperienze di vita semplice acquisite in campagna e in famiglia con le tecniche “scout” ed ho scoperto che non ero solo appassionato di “natura” ma ero anche appassionato nel trasmettere queste mie esperienze a ragazzi meno fortunati di me, da quelli che erano nati e cresciuti in città a quelli con disabilità motorie o psichiche, così ho scoperto il potere “taumaturgico” degli ambienti naturali. 

Ma la vita mi ha presentato vari incroci ed ostacoli (come a tutti) e quindi non sempre sono riuscito a mantenermi costante in questo, e per concentrare queste esperienze e renderle più intense, per un periodo della mia vita, mi sono dedicato agli sports che ora li chiamano “estremi”, kajak fluviale, arrampicata, mountain bike e lunghi trek in autosufficienza.

Passano gli anni e come sopra mi ritrovo a non riuscire più a gestire il mio tempo e dedicarmi a quello che alla fine ha segnato sempre la mia vita, vivere esperienze forti in natura e trasmetterle ad altri più o meno giovani di me, fino a due anni fa, quando per una serie di “urgenze” da risolvere mi ritrovo a distanza di 30 anni a vivere per qualche mese nelle terre di origine dei miei genitori e qui la sorpresa.

Tutto era cambiato, la natura, le persone, il paesaggio, quelle che erano montagne abitate da pastori e coltivatori stavano diventando “estreme” e quindi mi sono reso conto di essere l’anello giusto per collegare il passato “romantico” nascosto, con il mondo “estremo” del presente, consapevole del fatto di non avere il potere di far tornare indietro il mondo, ma almeno quello di renderlo meno estremo e soprattutto facendo vivere in pillole quello che io ho avuto la fortuna di vivere e conoscere.

Probabilmente è un idea molto ambiziosa, ma fino ad ora l’approccio disinteressato (acquisito dopo più di 30 anni di volontariato) rende la mia semplice azione più sincera ed anche più efficace.

 Le mie parole maestre: semplicità spiritualità essenzialità laicità gioia avventura tecnica stupore.

GIME per ora è solo una pagina facebook con un acronimo che con quattro lettere cerca di riassumere tutto questo. Girovagare (non volevo usare il termine escursionismo o trekking) interpretare (perché spesso quello che vediamo è il frutto di secoli di alterazioni dovute all’opera umana) mangiare (non bastano gli occhi per capire quello che abbiano intorno deve entrare dentro di noi) educare (un’esperienza non è completa secondo me e non viene interiorizzata se non viene trasmessa ad altri).